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Registrazione Trib. di Sa n°22 del 07.05.2004
 
 
 
 
 
 
 
 
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La missione impossibile di Don Josè Borjès
“L’ultima nostra ora è giunta, muoriamo da forti. Mirate diritto…”

“Mio generale. Lo spirito delle cinque provincie da me percorse è eccellente, o per meglio dire, vi sono nove realisti sopra dieci persone. Se Crocco volesse disciplinarsi e io potessi aver un pò di denaro e cinquecento fucili, la rivoluzione (l’affaire rèvolutionnarie) sarebbe terminata; ma se quest’uomo agisce in senso contrario, nulla si può fare senza una forza di cinquecento uomini, colla quale si costringerebbe i recalcitranti a marciare. Crocco tuttavia mi promette…se me lo dà, terrò la campagna, se me lo rifiuta, non ho altro partito da prendere che tornarmene a Roma, per rendervi conto della mia missione, e per esporre nel tempo stesso ciò che importa fare per riuscire”.  
La missione di cui parla Don Josè Borjès (o Borges) con il generale Clary non è cosa da poco: riconquistare il Regno perduto delle Due Sicilie e restituire il trono a Francesco II e a Maria Sofia. Siamo nel 1861. L’antico regno del Sud è stato conquistato dai garibaldini e dall’esercito piemontese in appena due mesi, ma è in rivolta; circa 400 bande e circa centomila persone alla macchia scorazzano tra i monti e i boschi delle provincie meridionali, in preda a un forte impulso anarchico di distruzione e di vendetta; serve un uomo moralmente integro, un legittimista di provata fede che coordini, organizzi un vero esercito per ripetere la vittoriosa impresa del Cardinale Ruffo e rinverdire  lo spirito della Vandea. Il prescelto si chiama Josef, Miguel, Francisco Borgès, è nato il 28 novembre 1813 a Fernet in Catalogna. Nel 1833 alla morte del re Ferdinando VII scoppiò la guerra civile tra i sostenitori della figlia Cristina e quello del fratello Don Carlos. Borges combatte con valore nelle fila carliste dove confluivano gli esponenti cattolici tradizionalisti e soprattutto i reazionari antiliberali e i grandi proprietari terrieri delle regioni più arretrate della Spagna. La loro ideologia era ispirata al classico “Dio, Patria e Famiglia”.  Il giovane Borjes figlio di un ufficiale fucilato durante la guerra civile, si distinse nell’eroica conquista di Ripell meritando la croce di San Ferdinando e la promozione a colonnello. Dopo la sconfitta dei legittimisti si recò in esilio in Francia dove visse per un certo tempo lavorando come rilegatore.  Arruolato dal generale Tommaso Clary e da Folco Russo Principe di Scilla, esponenti del comitato borbonico di Marsiglia, Borjes venne incaricato, nell’estate del 1861, di assumere la direzione politico-militare della spontanea rivolta contadina avvalendosi dei comitati filo borbonici che avrebbe dovuto trovare sul posto.  Imbarcatosi da Marsiglia, giunse a Malta una delle basi della cospirazione borbonica e il 14 settembre 1861 con 17 ufficiali spagnoli e napoletani, una ventina di fucili e le munizioni, sbarca sulle coste di Brancaleone in Calabria. L’impatto con il Sud dell'Italia fu quasi traumatico. Dal suo diario di guerra, un resoconto dettagliato della sua impresa che inizia il 22 settembre 1861 e termina il 30 novembre, Borjes non nasconde la sua delusione e l’amarezza per le promesse non mantenute, e per non aver incrociato nessun armata di realisti. Entrato in contatto con la banda brigantesca di Mittica, forte di 120 uomini, tentò di attaccare la città di Platì ma il colpo falli. Spirito indomito, idealista coerente, il generale spagnolo proseguì la sua mission e si mosse verso la Basilicata con lo scopo di unirsi con le bande di briganti comandate dal “generale” Carmine Donatelli (Crocco), un pastore di  Rionero in Vulture, che aveva scatenato una vasta sollevazione contadina nel Melfese, risollevando il potere borbonico in diversi centri ed estendendo la “reazione” in tutte le provincie. L’incontro tra il condottiero spagnolo e il capobanda lucano avvenne nel bosco di Lagopesole il 22 ottobre. Più che un incontro, fu un dialogo tra sordi.
“Il capo della banda giunge: gli faccio vedere le mie istruzioni, ed egli cerca di esimersi con falsi pretesti. Temo di non poterne trarre partito; tuttavia non ho perduto ogni speranza: mi dice che dobbiamo attendere l’arrivo di un generale francese, che è a Potenza e che giungerà domani sera e da lui sentiremo ciò che dice prima di decidere qualcosa di definitivo. Il “generale” francese è il famoso Augustin Marie Olivier De Langlais, nato a Nantes, uno dei luogotenenti di Crocco, ambiguo personaggio, di cui accenna Giustino Fortunato e Benedetto Croce che lo definisce un cerveau brulè, probabilmente un agente legittimista francese infiltrato che si firma Il Comandante in capo le forze regie nella provincia di Basilicata, Cavaliere del Reale e Militare Ordine di S.Giorgio della Riunione. Ecco in che termini ne parla nel diario quando l’incontra per la prima volta: “Il signor De Langlois giunge con tre ufficiali: si spaccia come generale e agisce come un imbecille. Lo lascio fare per vedere se la sua nascita lo ricondurrà al dovere: ma vedendo che egli prende maggior coraggio dal mio silenzio, lo chiamo a me e gl’intimo ad esibire le sue istruzioni. Risponde non averne in scritto; e allora abbassa il suo orgoglio. Carmine Crocco, capo della banda, per il momento è assai attento, ma non si dà cura di riunire le sue forze per organizzarle. Qual danno che io non abbia 500 uomini per farmi obbedire prontamente!”. Borjes non risparmia i giudizi negativi su Crocco: “Crocco, che è assai astuto, guadagna tempo e non mantiene la promessa di organizzare da lui fattami. Non posso intendere quest’uomo che, a dir vero, raccoglie molto danaro: cerca l’oro con avidità”. Non meno tenero è il giudizio di Crocco su Borjes: “ Quell’uomo forestiero che veniva da noi per arruolare proseliti e reclamare in conseguenza l’ausilio della mia banda, destò sin dal primo momento nell’animo mio una forte antipatia poiché compresi subito che a petto suo dovevo spogliarmi del grado di generale comandante la mia banda, per indossare quello di sottoposto. Egli, un povero illuso, venuto dal suo lontano paese per assumere il comando di un’armata, aveva creduto trovar ovunque popoli insorti, e dopo un primo colossale fiasco dalla Calabria alla Basilicata, voleva convincere me ed i miei che non sarebbe stato difficile provocare una vera insurrezione, dato il numero della mia banda. Dopo lunghe trattative e convenzioni verbali sull’uso della forza, sull’ordinamento del comando, sulla mercede giornaliera, mi unii colla banda al generale spagnolo, e con lui iniziai nuove gesta brigantesche….”.  Borjes cerca di imporre il suo comando a un recalcitrante Crocco, poi si giunge a un compromesso in un clima di reciproco sospetto: in forza della superiore tecnica guerresca degli ufficiali spagnoli si concorda di fatto che questi comandino le varie masnade e che al Crocco si riconosca il comando di generalissimo ordinandosi le bande su basi militari, suddivise in compagnie. Borjes, Crocco e i suoi luogotenenti Coppa, Caruso, Tortora, Ninco Nanco e circa 1.200 briganti nel novembre 1861, discesero improvvisamente dal massiccio boscoso del Vulture, “iniziando una delle più memorabili scorrerie della storia del brigantaggio post-unitario”.  Occuparono Trivigno che misero a ferro e fuoco, invasero Calciano e Garaguso, devastarono Salandra ed Aliano.” Il 10 novembre, alla taverna Acinello, sulla piana del fiume Sauro, si combattè uno dei maggiori scontri del brigantaggio. Le bande brigantesche, ammontanti a parecchie centinaia di uomini, guidate abilmente da Borjes che seppe utilmente avvalersi della sua cavalleria, sopraffecero un battaglione di guardie nazionale mobili, comandato dal patriota liberale Emilio Petruccelli, affiancato da un distaccamento del 62° fanteria, che avevano tentato di sbarrare la strada. Caddero combattendo il capitano Polizza, un valoroso ex garibaldino, e una quarantina fra soldati e guardie mobili”. Il 14 i briganti occupano Grassano, il 15 San Chirico e il 16 Vaglio, da dove, in vista di Potenza, attendono che la loro capitale insorga come era stato concertato. Il complotto borbonico nella città viene però scoperto e represso e l’ esercito contadino attacca nel pomeriggio del 16 ed occupa nella parte bassa Pietragalla, mentre il Castello difeso dai notabili del paese resiste vigorosamente per venti ore. Dopo l’occupazione e il saccheggio di Pietragalla, la diversità di opinioni sul modo di condurre la guerra, determinò aspri contrasti tra Borjes e Crocco. Il generale spagnolo riteneva necessario organizzare le forze  per puntare alla conquista di Potenza per la risonanza politica che avrebbe avuto; Crocco già disilluso dalle promesse non mantenute da Bories che aveva assicurato l’arrivo di migliaia di soldati spagnoli ed austriaci, riteneva “possibile soltanto la guerriglia con base nei boschi e sui monti, limitata, in sostanza , a tormentare le autorità e a colpire le proprietà dei “galantuomini”. Il punto di vista diverso circa la condotta della guerra  è  stato ben illustrato da Renzo Del Carria “ogni volta che un paese veniva occupato il Crocco si preoccupava di porre taglie sui ricchi, di consentire ai suoi uomini e alle masse popolari il saccheggio dei palazzi sia per fine di lotta sociale, sia per consentire l’approvvigionamento di centinaia di uomini, mentre il Borjes si indignava per il saccheggio dei palazzi appartenenti ai nobili simpatizzanti per il borbone… Il Crocco voleva distruggere le carte della proprietà nel nome del Borbone, mentre il Borjes voleva amministrare i paesi nell’ordine costituito. Il Crocco, già battuto nella primavera in campo aperto, sapeva che l’unica lotta possibile per i suoi contadini, era la guerra per bande in aperta campagna, ove le distanze, la mobilità delle bande e l’ostilità delle popolazioni verso i piemontesi li rendeva pressoché invulnerabili; il Borjes voleva invece l’organizzazione delle bande sulla base di un esercito regolare (organizzato in compagnie e battaglioni) per battere i piemontesi in battaglia aperta ed entrare nelle città a restaurare il governo del borbone”. Dopo gli errati attacchi ad Avigliano e Bella, il dissidio tra i due leader del movimento insurrezionale si fa più acuto e la rottura è invitabile. Nota acutamente Renzo Del Carria che “la ragione della sconfitta di Crocco non va ricercata nell’aver rifiutato o comunque sabotato il comando degli ufficiali spagnoli, la loro rigida disciplina da piazza d’armi e la loro strategia da manuale; ma anzi il contrario; la sua sconfitta cioè derivò dall’aver accettato, anche se parzialmente e solo nei primi giorni, “l’idea generale” di cercare il successo con l’occupazione dei centri abitati e del terreno e, nella fase finale, dall’essersi lasciato irretire negli “assedi” di Avigliano, Bella e Pescopagano, consentendo all’esercito piemontese di agganciarlo e scompigliarlo ”. Il 27 novembre Borjes è privato del comando. Crocco, scrive Borjes, “riunisce i suoi antichi capi di ladri e dà loro i suoi antichi accoliti. Gli altri soldati sono disarmati violentemente; prendono loro in specie i fucili rigati e quelli a percussione”. “ La sua partenza non ci commuove anzi l’abbiamo voluta stanchi del suo comando ” scrive Crocco nell’autobiografia. Il generale carlista si rimette in marcia per raggiungere la frontiera pontificia, la sua missione è miseramente fallita. Il gruppo, ventiquattro uomini in tutto, stremati e braccati incessantemente dalle truppe e dalle guardie nazionali, “con una marcia che ha qualcosa di leggendario” nota il Molfese,  attraversa l’Alto Molise e l’altopiano delle Cinque Miglia e raggiunge la Marsica. La neve è alta, l’inverno rigidissimo. Si rifugiano nella cascina Mastroddi, in località La Luppa, presso Tagliacozzo. Sono a circa tre ore di marcia dalla salvezza. Come Chief Joseph dei Nez Perce, catturato a pochi chilometri dal confine canadese. Credono di essere ormai in salvo, quando all’improvviso alle ore 10 circa dell’8 dicembre 1861 una trentina di bersaglieri al comando del maggiore Enrico Franchini, coadiuvati da guardie nazionali di Sante Marie, circondano la cascina.    
Questo il rapporto ufficiale sulla cattura e sulla fucilazione indirizzato al generale Alfonso La Marmora
Tagliacozzo, 9 dicembre 1861
Alle ore 12 e 1/2 della sera del 7, una lettera del signor sotto-prefetto del circondario m’avvisò che Borjès con 22 suoi compagni  a cavallo era passato da Paterno dirigendosi sopra Scurcula; ed altra, alle ore 3 e ½ del mattino degli 8, del signor comandante i reali carabinieri da Cappelle mi faceva sapere che alle 8 di sera dei 7, avevano i medesimi traversato detto paese, e che tutto faceva credere avessero presa la strada per Scurcola e Santa Maria al Tufo. Dietro tali notizie io spediva tosto una forte pattuglia comandata da un sergente verso la Scurcola colla speranza d’incontrarli, ed altra a Santa Maria comandata da un caporale per avere indizii  se mai i briganti fossero colà arrivati; ma costoro prima degli avvisi ricevuti avevan di già oltrepassato Tagliacozzo e traversato chetamene Santa Maria, dirigendosi sopra la Lupa, grossa cascina del signor Mastroddi. Certo del passaggio dei briganti, io prendeva con me una trentina di bersaglieri, i primi che mi venivano alla prima, ed il   signor luogotenente Staderini che era di picchetto; ed alle due prima di giorno, mi metteva ad inseguire i malfattori. Giunto a Santa Maria trovava la pattuglia colà spedita, e da questa e dai contadini aveva indirizzi certi del passaggio dei briganti, ed aiutato dalla neve, dopo breve riposo, celermente prendeva le loro tracce, per alla Lupa. Erano circa le 10 antimeridiane allorchè io giunsi alla cascina Mastroddi, ma nulla mi dava indizi che essa fosse occupata dai briganti, quando una cinquantina di metri circa da quel luogo, vedo alla parte opposta fuggire un uomo armato. Mi metto alla carriera, lo raggiungo e gli chiudo la strada, i miei bersaglieri si slanciano alla corsa dietro di me, ma il malfattore, vistosi impedita la fuga, mi mette la bocca della sua carabina sul petto e scatta; manca il fuoco; lo miro ala mia volta colla pistola ed ho la medesima sorte; ma non fallì un colpo sulla testa che lo stese a terra. I bersaglieri si aggruppano intorno a me ed a colpi di baionetta uccidono quanti trovano furon (cinque): altri circondano la cascina; ma i briganti avvisati, fanno fuoco dalle finestre e mi feriscono due bersaglieri. S’impegna un vivo combattimento, ed i briganti si difendono accanitamente. Infine, dopo mezz’ora di fuoco, intimo loro la resa, minacciando di incendiare la casa; ostinatamente rifiutano, ed io volendo risparmiare quanto più poteva la vita ai miei bravi bersaglieri, già faceva appiccare il fuoco alla cascina, quando i briganti si arrendevano a discrezione. Ventitrè carabine, 3 sciabole, 17 cavalli, moltissime carte interessanti cadevano in mio potere, e bandiere tricolori con la croce di Savoia, forse per servire d’inganno, non che lo stesso generale Borjès e gli altri suoi compagni descritti nell’unito stato, che tutti traducevo meco a Tagliacozzo , assieme ai 5 morti, e che faceva fucilare alle ore 4 pomeridiane, ad esempio dei tristi che avversano il Governo del Re ed il risorgimento della nostra patria. Alcune guardie nazionali di Santa Maria col loro capitano che mi avevano seguito, si portarono lodevolmente, per i quali mi riserbo a far delle proposte per ricompense al signor prefetto della provincia. Il luogotenente signor Staderini si condusse lodevolmente, e mi secondava con intelligenza, sangue freddo e molto coraggio. I bersaglieri tutti grandemente si distinsero. Rimetto alla S.V. illustrissima lo stato dei candidati per le ricompense, non che tutte le carte, corrispondenze interessantissime del nominato generale Borjès e suoi compagni, persuaso che da questo il Governo potrà trarre grandissimo vantaggio.

Il maggior comandante il battaglione
FRANCHINI
Altri particolari sulla cattura di Borjes ci sono forniti dal Sottoprefetto di Avezzano che nel suo rapporto scrive che il maggiore Franchini irritato dalla resistenza del Bories, “ordinò che si appiccasse il fuoco a quel nido di assassini. Già un ardito bersagliere aveva appiccato il fuoco, le fiamme già cominciavano a divampare, già due briganti erano bruciati vivi, ed il Bories che vedeva capì venir meno ogni speranza di scampo, faceva segno di volersi arrendere. Venuto fuori dalla casa consegnava la sua spada al Franchini, chiedendo onorevoli patti. Ma il Franchini protestando di  non poteva accordare patti di sorta a’ briganti, gittava lungi da sè la spada consegnatagli. A quest’atto il sedicente colonnello Laiont spianava la sua carabina contro il petto del bravo ufficiale italiano; ma fallitogli il colpo cadde subito morto sotto i colpi della baionetta d’una Guardia Nazionale accorsa in difesa del Maggiore. Il Bories si arrendeva allora a discrezione, ed i suoi non osando più resistere allo slancio de’ bersaglieri e delle guardie nazionali, usciti dalla casa, gittarono le armi e si arrendevano del pari ”. Legati due a due, i prigionieri vennero condotti a Tagliacozzo. Durante il tragitto Borges parlò poco e fumò. Disse a varie riprese: “ Bella truppa i bersaglieri!”. Poi al luogotenente Staderini: “Andavo a dire al re Francesco II che non vi hanno che miserabili e scellerati per difenderlo, che Crocco è un sacripante e Langlois un bruto”. Manifestò il suo dispiacere per essere stato catturato tanto vicino agli Stati Romani. ” Ringraziate Dio che io sia partito questa settimana, un’ora troppo tardi; avrei raggiunto gli Stati romani e sarei venuto con nuove bande a smembrare il regno di Vittorio Emanuele”. A Tagliacozzo, nello stesso luogo, dove si era consumato nel 1268 il sogno di Corradino di Svevia, Borges e i suoi compagni vennero condotti in un corpo di guardia, ove dettero i loro nomi. Uno spagnolo, Pedro Martinez, chiese inchiostro e carta e scrisse queste parole: “Noi siamo tutti rassegnati ad essere fucilati: ci ritroveremo nella valle di Giosafat, pregate per noi ”. Tutti si confessarono in una cappella e dopo furono condotti sul luogo dell’esecuzione. “L’ultima nostra ora è giunta, esclamò Borgès: muoriamo da forti ”. Abbracciò i suoi compatrioti, pregò i bersaglieri di mirare diritto, poi si mise in ginocchio coi suoi compagni e intonò una litania in spagnolo. Gli altri in coro gli rispondevano. Il cantico fu rotto dai colpi: dieci Spagnoli caddero; dopo di che venne la volta dei Napoletani, fra i quali vi era un ultimo straniero il quale, prima che fosse fatto fuoco, gridò ad alta voce: “ Chiedo perdono a tutti!”. Borges e i suoi (11 spagnoli ed 8 italiani) furono fucilati alla schiena come volgari malfattori, senza processo, indignando persino il grande Victor Hugo che scrisse in un articolo che solo in Italia si fucilano i legittimisti. L’uomo che catturò Borges guadagnò la medaglia d’Oro al Valor Militare. Rileva giustamente il Molfese: “I motivi della subitanea fucilazione di Borjes rimangono realmente inspiegabili, e soltanto parzialmente si possono comprendere con la cieca abitudine invalsa di fucilare indiscriminatamente i briganti. D’altronde, sembra che il maggiore dei bersaglieri, Franchini, che catturò e fece fucilare Borjes, l’anno innanzi avesse fatto arrestare e fucilare immediatamente, sotto l’accusa di detenzione di armi, un cittadino di Zizzoli che forniva vitto e alloggio agli ufficiali e, pare, allo stesso Franchini. Le esecuzioni sommarie di arrestati e di prigionieri erano molto frequenti. “Il 6 dicembre 1861, i bersaglieri prelevarono dalle carceri di Potenza un gruppo di detenuti, tra i quali due luogotenenti di Crocco, Vincenzo D’Amato (Stancone) e Luigi Romaniello e, anziché tradurli a Salerno, lì soppressero per via”. L’assurdità della fucilazione di Borjes appare più evidente visto che il giorno prima Bettino Ricasoli, il barone di ferro succeduto a Cavour alla guida del governo, ne sollecitava l’arresto che avrebbe “stupendo effetto per la pubblica rassicuranza”. Ricasoli avrebbe voluto sbandierare nel parlamento di Torino la cattura del generale spagnolo. Tutti i cadaveri furono bruciati, tranne quello del Bories. Grazie all’interessamento del Principe di Scilla e l’intervento del gen.La Marmora, due mesi dopo, il corpo del condottiero fu esumato e trasferito a Roma, dove nella Chiesa del Gesù si celebrarono le solenni esequie. L’8 dicembre del 2003 nel prato antistante la masseria Mastroddi, all’altezza dell’inghiottitoio di Luppa, è stato collocato un cippo marmoreo dall’amministrazione comunale di Sante Marie e dal Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio che ricorda la sfortunata e tragica vicenda del generale spagnolo. “ In questo remoto casolare l’8 dicembre 1861, s’infranse l’illusione del gen.Josè Borges e dei suoi compagni di restituire a Francesco II il Regno delle Due Sicilie. Catturati da soldati italiani e guardie nazionali di Sante Marie al comando di Enrico Franchini furono fucilati lo stesso giorno a Tagliacozzo. Riposino in pace”.

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